WPills #4 – Coronavirus in Africa: quanto è pronto il continente?

A cura del WolissoProject – Gruppo Scientifico
Alberto, Laura e Chiara

I governi e le autorità sanitarie di tutto il continente, insieme alla comunità globale, stanno agendo sul territorio africano al fine di rallentare e arrestare la diffusione di COVID-19.

Il direttore regionale dell’OMS per l’Africa, il dott. Matshidiso Moeti, ha aperto la COVID-19 Press Conference del 7 maggio scorso avvertendo che, se non venissero adottate le misure di contenimento dell’epidemia, sul miliardo di persone che popolano i 47 Paesi dell’Africa Region, ad un anno il 26% risulterebbe infettato e i morti potrebbero essere più di 190.000.
I casi positivi accertati aggiornati al 19 maggio risultano essere 61.991, l’1,3% sul totale mondiale, con un tasso di letalità del 2,9% e un’età media dei soggetti coinvolti di 39 anni.

Fin dall’inizio dell’epidemia l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha fornito supporto ai governi africani su diversi fronti. Sono state implementate le procedure di diagnosi precoce mettendo a disposizione migliaia di kit di test COVID-19 grazie ai quali ad oggi 44 Paesi possono testare COVID-19 nella popolazione, mentre all’inizio dell’epidemia i Paesi in cui ciò era possibile erano solo due. L’azione del OMS si è poi concentrata nel garantire la formazione degli operatori sanitari e nel rafforzamento delle misure di sorveglianza attiva nelle comunità.

È stata coinvolta una rete di esperti al fine di fornire supporto e coordinamento alle azioni di sorveglianza, nell’utilizzo di strumenti epidemiologici e modelli, oltre che alla diagnostica e alle misure di gestione clinica e trattamento, per identificare e gestire su larga scala la malattia e limitarne la diffusione. La maggior parte dei Paesi africani ha già sviluppato in passato dei piani di risposta strategica per contrastare altre epidemie, tra cui l’influenza H1N1, la SARS, la MERS e l’ebola. Questi piani, nonostante siano risultati inadeguati per la gestione dell’attuale epidemia, avevano evidenziato la necessità di rafforzare la capacità diagnostica, il capitale umano impiegato in sanità e le infrastrutture.
Proprio grazie al lavoro svolto per la preparazione e la risposta alle precedenti epidemie, in Africa era già stata posta una solida base per affrontare la diffusione di COVID-19.

L’OMS ha pubblicato dei report aggiornati settimanalmente per tener conto dell’evolversi della pandemia e su cui programmare i piani di intervento. Le problematiche che si incontrano sono molteplici; vediamo quali sono alcuni degli elementi critici che caratterizzano la situazione africana.

Alcuni fattori sociali potrebbero rendere la pandemia in Africa molto più grave: nei Paesi africani coinvolti in conflitti armati o tensioni socio-politiche, la risposta all’epidemia è molto più difficile. Inoltre, due categorie di popolazione notoriamente più vulnerabili alle infezioni, ovvero i pazienti HIV positivi non in trattamento retrovirale e i bambini malnutriti, sono particolarmente rappresentate in Africa (circa 9,4 milioni di africani HIV positivi sono senza trattamento antiretrovirale e quasi 60 milioni di bambini soffrono di malnutrizione cronica).

Le misure preventive di base da parte di individui e comunità rimangono lo strumento più potente ed efficace per prevenire la diffusione di COVID-19, perciò anche nel continente africano le linee guida adottate includono misure come la quarantena per i soggetti sintomatici o entrati in contatto con pazienti positivi e la preparazione adeguata prima di recarsi nei luoghi di lavoro. Fondamentali sono anche il rispetto della distanza interpersonale e l’igiene delle mani, due misure non così facilmente applicabili in Africa. Circa la metà della popolazione africana vive in aree urbane e di queste la maggior parte abita in sobborghi sovraffollati e con scarse condizioni igieniche (mancanza di acqua corrente e servizi igienici adeguati). In questo contesto, diventa difficile attuare le misure base per evitare il contagio. Ancora, la disinformazione della popolazione è un problema consistente e perciò l’OMS sta supportando le autorità locali al fine di garantire l’informazione pubblica sui rischi di COVID-19 e su quali misure dovrebbero essere prese.

Un altro punto estremamente delicato viene evidenziato dal dott. Matshidiso Moeti, che ha evidenziato la difficoltà nell’ “affrontare i casi nelle aree rurali che spesso non dispongono delle risorse ospedaliere e sanitarie dei centri urbani” in un contesto generale in cui vi è una carenza critica di strutture di trattamento per casi critici di COVID-19 e ha aggiunto che ciò “rappresenterà una sfida immensa per i sistemi sanitari già tesi in Africa”.

Un’analisi, pubblicata il mese scorso dall’OMS, mette in luce una situazione critica riguardo alle risorse disponibili per la lotta contro il COVID-19. È stato calcolato che il numero totale di posti letto nelle unità di terapia intensiva (ICU) disponibili per il trattamento dell’emergenza COVID-19 in 43 Paesi del continente africano sia inferiore a 5000. Questo significa una media di circa 5 posti letto per milione di persone rispetto ai 4000 posti letto per milione di persone disponibili in Europa. Ulteriori dati mostrano che in 41 Paesi che hanno riferito all’OMS, i ventilatori funzionali nei servizi di sanità pubblica sono meno di 2000.

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In occasione della Giornata mondiale dell’igiene delle mani (Hand Hygiene Day), l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ricordato che “il lavaggio delle mani è una delle azioni più efficaci che è possibile intraprendere per ridurre la diffusione di agenti patogeni e prevenire le infezioni, incluso il Covid-19”, facendo però notare come in mancanza dei principali strumenti di prevenzione, primo fra tutti l’acqua pulita, vi sia una maggiore esposizione al rischio in alcuni Paesi africani dove la diffusione del COVID-19 potrebbe rappresentare un enorme problema sanitario e sociale.

 

Le fonti dei dati e delle nozioni dell’articolo fanno riferimento ai siti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS).

 

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WPills #3 – L’epidemia da COVID-19 in Africa: pochi casi o dati sottostimati?

A cura del WolissoProject – Gruppo Scientifico
Alberto, Laura e Chiara

I numeri dell’epidemia di COVID-19 sono stati resi noti dai mass media a partire dallo scorso gennaio; allora la diffusione era limitata solo ad alcune zone circoscritte della Cina. Nei mesi successivi i numeri del contagio sono evoluti andando incontro ad una progressione di aumento esponenziale che ha portato l’epidemia ad essere classificata come pandemia dal WHO in data 11 marzo (1).

Le conoscenze acquisite con l’esperienza di cura e l’osservazione dei soggetti entrati in contatto con Sars-CoV-2 hanno permesso di scoprire come individui apparentemente asintomatici e temporaneamente negativi possono incubare il virus per molti giorni, diventando in un secondo momento positivi, contagiosi e talvolta sintomatici. Il lungo periodo di incubazione, variabile da 2 a 11 giorni fino ad un massimo di 14 giorni (3) elude anche le più accurate indagini cliniche, nascondendo un gran numero di contagi avvenuti; i dati delle prime rilevazioni si sono dimostrati sottostimare la reale situazione epidemiologica, anche nei paesi occidentali.

Al 1 maggio secondo i dati ufficiali la diffusione del virus nel mondo ha superato i 3.2 milioni di malati mentre i deceduti accertati sono 233.000 (1). In questa situazione l’Africa registra poco più di 36.000 casi totali (corrispondenti all’1,1% del totale) pur avendo una popolazione di 1,314 miliardi (equivalente al 15% di quella mondiale). Tale popolazione è concentrata talvolta in metropoli densamente popolate e con condizioni igieniche scarse, servite da sistemi sanitari deboli e poco presenti nel territorio.

La diffusione del virus in Africa ha fatto registrare il primo contagio accertato in data 14 febbraio in Egitto. In data 10 aprile i contagiati hanno superato quota di 10.000 unità mentre solo 20 giorni dopo hanno superato quota 31mila (2).

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La mappa riporta gli incrementi nelle diagnosi giornaliere di COVID-19; il contributo dei paesi africani è evidenziato all’apice di ogni colonna, in colore verde. I dati del continente africano riportano una diffusione epidemiologica in aumento, ma non in maniera dilagante come in altre aree del mondo.

Quali sono le cause di numeri così bassi? Si tratta di dati affidabili?
Abbiamo cercato di riassumere le ragioni che probabilmente concorrono a determinare i numeri così ridotti.

1 – Precoce stadio dell’evoluzione della pandemia
In Africa il virus è arrivato con ritardo rispetto alle altre zone del pianeta, almeno secondo quando riportano i dati sui primi contagi. In molte zone dell’Africa, specialmente quelle più isolate e meno sviluppate al giorno d’oggi, l’epidemia si trova ancora in uno stato iniziale, caratterizzato da una circolazione del virus ancora contenuta (4).

Inoltre, molti paesi africani hanno una circolazione di persone molto minore rispetto ai paesi industrializzati, sia interna che verso paesi esteri, e ciò rallenterebbe ancora la diffusione. A rafforzare tale ipotesi vi sono i dati epidemiologici del Sudafrica che presenta ad oggi una diffusione moderatamente elevata con 5.700 casi (16% dei casi registrati nel continente) e che non a caso può essere considerato come il paese più industrializzato (2).

2 – Mancanza di screening e di risorse
Nella maggior parte dei paesi africani non è presente un sistema sanitario solido ed efficace; vi è una quasi totale mancanza di strumentazione e materiale per effettuare le diagnosi, oltre all’assenza di una organizzazione che compia l’elaborazione locale dei dati. I paesi poveri dell’africa sub-sahariana, specialmente quelli coinvolti in lunghi conflitti a bassa intensità, non hanno le infrastrutture e le risorse per permettersi una valutazione del contagio su larga scala (5).

In africa sono stati effettuati 400 tamponi per ogni milione di abitanti, di cui la maggior parte in Sud Africa, Botswana e Ghana: si tratta di un valore molto basso se teniamo conto che in un paese industrializzato come l’Italia ne sono stati effettuati quasi 2 milioni dall’inizio della pandemia (7).

Più di 40 Paesi sarebbero ora in grado di utilizzare i test specifici, rispetto agli unici due che erano in grado di farlo all’inizio del 2020 (Sud Africa e Senegal).

Per contrastare la mancanza di risorse, alcuni aiuti sono arrivati da paesi esteri come l’Unione Europea, che ha stanziato 15 miliardi, e la Cina. Tuttavia, date le proporzioni del fenomeno, tali fondi non risultano sufficienti per un contrasto efficace. Considerando che anche le stesse nazioni industrializzate sono alle prese con l’epidemia, per cui il loro sostegno è limitato dalla richiesta interna di risorse (6).

3 – Compresenza di altre patologie a carattere infettivo
Viene ritenuto probabile che la diffusione di altre patologie infettive tropicali già presenti sul territorio stiano mascherando l’identificazione dei casi di COVID-19, che spesso si manifesta con sintomi aspecifici e non univoci (4).

È noto come nel territorio africano epidemie virali siano frequenti. Un esempio è il caso del virus ebola, che pur presentando una letalità ben superiore rispetto a quella del COVID-19, condivide probabilmente con quest’ultimo l’origine animale: in entrambi i casi secondo le ipotesi più affidabili sarebbe avvenuto uno spillover o salto di specie che ha permesso all’agente virale di trasmettersi dal regno animale all’uomo. Il virus è presente nell’africa subsahariana anche dopo l’epidemia del 2014 e nella Repubblica Democratica del Congo è tuttora in corso una nuova epidemia, che dal 2018 ad oggi ha fatto registrare 3.500 casi (1).

4 – Età demografica
Il COVID-19 contagia soggetti di tutte le età, ma ad essere colpiti più duramente sono soggetti anziani. La popolazione africana è in forte crescita e presenta una età media di circa 18 anni: si tratta quindi di un continente molto giovane, se confrontato con i 42 anni di età media della popolazione europea. Risulta quindi probabile che un elevato numero di individui di età inferiore ai 18 anni contraggano il virus senza tuttavia sviluppare i sintomi, ma diventando un mezzo di diffusione formidabile che farà sentire i propri effetti in un secondo momento. Ipotizzare una diffusione su larga scala nella popolazione più giovane può portare al raggiungimento di un elevato grado di immunità (5).

5 – Fattori climatici
Specialmente nell’Africa Subsahariana, la temperatura è costantemente più alta che in Europa: si è ipotizzato che il virus abbia difficoltà a circolare con queste condizioni climatiche (5). Questa ipotesi costituisce una speranza sia per gli africani che per i paesi dell’occidente, in prospettiva dell’arrivo dell’estate nell’emisfero boreale. Se tale ipotesi di verificherà esatta, la circolazione del virus e il numero di casi in Africa continuerà a mantenersi su valori percentuali bassi rispetto alle dimensioni mondiali del fenomeno anche nel corso delle prossime settimane. Al giorno d’oggi quindi l’Africa costituisce un “laboratorio” per valutare se il clima possa condizionare la diffusione del virus.

 

La previsione dei possibili sviluppi dell’epidemia in Africa è complessa e gli scienziati prevedono scenari estremamente diversi; Una previsione accurata è difficile perché bisogna focalizzarsi non solo sugli aspetti direttamente collegati alla malattia e alla sua diffusione, ma anche al contesto dei singoli paesi in questione. (9) Risulta ancora più limitante in questo scenario l’impossibilità di effettuare indagini epidemiologiche affidabili in questi territori.

 

Fonti
(1) “WHO announces COVID-19 outbreak a pandemic” – www.euro.who.int
(2) “Africa, continua a crescere la popolazione del Continente: nel 2050 saranno più di 2 miliardi” – www.repubblica.it
(3) “Covid-19 – Situazione nel mondo” – www.salute.gov
(4)“Why are there so few coronavirus cases in Russia and Africa” –www.theconversation.com
(5) “In Africa il virus è meno presente. Perché?” – www.ilbolive.unipd.it
(6) “L’Europa aiuta l’Africa nella lotta contro l’epidemia” – www.internazionale.it
(7) “Low Covid-19 death toll raises hopes Africa may be spared worst” -www.ft.com
(8) “Weekly bulletin on outbreaks and other emergencies 30 March to 5 April 2020” www.euro.who.int
(9) “Pandemia COVID-19 in Africa: un evolversi pieno di incognite” – www.epicentro.iss.it

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WPills #2 – Don Dante Carraro: “La cooperazione internazionale, il futuro dell’Africa e degli aiuti umanitari”

A cura del WolissoProject – Gruppo Scientifico
Lorenzo, Laura e Chiara

Come secondo articolo della rubrica WPills riportiamo l’intervista di Giuseppe Laterza a Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa – Cuamm, nel contesto dei “Dialoghi sulla salute globale”. Trattasi di una serie di appuntamenti in diretta Facebook con i futuri relatori del Festival della Salute Globale che avrebbe dovuto tenersi a Padova il 2-5 aprile e che è stato rimandato a Novembre prossimo.

 

  • Cosa vuol dire Salute Globale?                                       

Salute globale significa l’importanza di salvaguardare beni come l’istruzione e la sanità, che o appartengono a tutti o non appartengono a nessuno. Basta un essere invisibile, come ad esempio un virus, per accorgersi che viviamo in unico mondo, che non esistono frontiere ma che siamo un’entità unica. I ruoli si possono capovolgere, in questo momento gli “untori” in africa potremmo essere noi Europei. In un mondo globalizzato come quello attuale se l’epidemia scappa di mano in Africa, non sarà solo un problema africano, sarà un problema che ci riguarderà tutti.

 

  • Qual è la situazione in Africa?  

Bisogna innanzitutto partire dal presupposto che l’Africa come soggetto unitario non esiste, esistono tanti paesi ognuno con la sua specificità. Il Sud Sudan vive per esempio situazioni drammatiche, con un’incredibile carenza di risorse umane (1 ostetrica per 20.000 mamme). Il Kenya, confinante con il Sud Sudan, ha un’organizzazione completamente diversa, con una capacità di affrontare le epidemie molto più strutturata. In Uganda, paese in grado di controllare epidemie annuali di Ebola in maniera ottimale, si è assistito recentemente ad un profondo cambio di rotta: il numero degli operatori sanitari locali, un tempo solo una piccola rappresentanza in confronto alla componente europea, si è accresciuto negli anni a tal punto da rappresentare oggi di gran lunga la maggioranza, con una componente di “bianchi” ridotta al lumicino. Appare chiaro come tra i sistemi sanitari dei paesi africani esistano differenze notevolmente maggiori rispetto alle differenze tra i paesi Europei. L’approccio con cui affrontare problematiche come il Covid non può essere quindi standardizzato. In paesi come la Sierra Leone, dove ci sono due letti di terapia intensiva, è necessario capire che l’unico modo per sconfiggere e contenere un’epidemia come quella attuale è lavorare sul contenimento. Se ci fosse un aumento esponenziale di casi risulterebbe impensabile arginare il problema attraverso le strutture sanitarie. Ci sono tuttavia fattori che fanno ben sperare come per esempio la presenza di una popolazione giovane (in Etiopia su 120 milioni di abitanti il 50% sotto i 18 anni). La speranza è che se il coronavirus si espandesse, la capacità di resistere da parte di questi giovani adulti sia alta. D’altro canto, c’è anche da considerare una promiscuità sociale molto forte, con una densità di popolazione nelle metropoli molto elevata (Addis Abeba ha 5 milioni di abitanti) e la presenza di comorbidità (si pensi all’HIV, il 50% dei sieropositivi non sono in trattamento). Attualmente ci sono 23.000 casi, concentrati principalmente tra Egitto Algeria Marocco e Sud Africa. Nell’africa Sub Sahariana alcuni paesi preoccupano: il Camerun sta avendo molti casi nonostante sia paese molto caldo (da qui l’ipotesi che il fattore caldo non sia necessariamente d’aiuto nel contenimento). In generale è però da considerare come i dati quasi sicuramente siano sottostimati: da un lato per la difficoltà a fare i tamponi, dall’altro per una difficoltà dei singoli paesi a condividere i dati reali perché considerati segno di debolezza.

 

  • Qual è la reazione dei diversi governi? Quali sono le politiche? Cosa sta facendo Cuamm?                      

Cuamm è presente in 8 paesi e in tutti e 8 le norme dei governi sono abbastanza comuni. Ad esempio, la chiusura degli aeroporti è una misura diffusa, vale per l’Angola, per la Sierra Leone, per l’Uganda, per il Mozambico e se non c’è una chiusura c’è in generale una riduzione molto forte dei voli (la stessa Etiopia, nella quale ha base la più grande compagnia aerea africana, l’Ethiopian Airlines, ha optato per una drastica riduzione dei voli su Addis Abeba). Altrettanto comuni sono le misure di lockdown (chiusura scuole, università, trasporti pubblici, mercati). In molti si sono chiesti quali possano essere le conseguenze di misure di questo tipo in società come quelle dei paesi africani. Considerando l’enorme capacità di diffusione di questo virus (notevolmente più alta rispetto ad altri virus come Ebola) le misura di contenimento risultano necessarie e indispensabili. I costi sociali sono però enormi e su questi è necessario intervenire. Il semplice blocco dei trasporti pubblici può creare grosse difficoltà alle aree marginali e più lontane dall’ospedale. Il rischio è che una mamma incinta, non potendosi permettere di pagare un taxi, non raggiunga l’ospedale e partorisca in casa con tutte le problematiche conseguenti. Lo stesso discorso vale per un bambino con diarrea o con meningite. Una soluzione efficiente può essere rappresentata dalla creazione di un sistema di voucher: alla donna in gravidanza nelle visite precedenti al parto viene consegnato un voucher che essa, nel momento di necessità, potrà consegnare ad una chiunque persona dotata di mezzo di trasporto che potrà portarla in ospedale e riscuotere il voucher direttamente lì. Un altro importante problema in contesti epidemici è rappresentato dalla paura di andare in ospedale. Spesso quando si sparge la voce di un nuovo virus e si sa che in un determinato ospedale vengono presi in carico soggetti contagiati, molti, pur in condizioni di necessità, evitano l’ospedale con conseguente aumento di tassi di mortalità per patologie normalmente trattate. Da qui la necessità di creare nell’ospedale un efficiente triage e un’unità di contenimento che permetta di proseguire con tutte le attività quotidiane creando fiducia nella popolazione.

 

  • Qual è il ruolo del capitale sociale nel contrasto di un virus?

Quando si affronta un virus non bastano i comportamenti avveduti delle autorità e non basta che i medici dicano le cose giuste. Come abbiamo compreso anche qui in Italia è necessaria la responsabilità collettiva, l’azione delle singole persone. Il capitale sociale si basa innanzitutto sulla fiducia, che ne è il lievito fondamentale. Non tutti i paesi africani hanno lo stesso livello di fiducia verso organizzazioni come il Cuamm. La fiducia bisogna guadagnarsela, costruirla assieme.  Vanno affrontate assieme le cose positive allo stesso modo di quelle negative. Per acquisire fiducia la presenza nel contesto africano deve essere medio-lunga, da qui il detto del Cuamm “When we start, we stay”. Ci sono paesi con una storia meno traumatica e dove è più facile costruire una fiducia reciproca. Altri, con storie di guerra e scontri civili, nei quali l’uso delle armi e la distruzione dell’altro sono metodiche insite nella memoria comune e dove è più complesso, ma a maggior ragione necessario, costruire un rapporto fiduciario. Ci sono paesi che negli ultimi anni hanno fatto enormi progressi nel processo di fiducia e collaborazione reciproca. Si pensi alla Sierra Leone, nella quale dover affrontare Ebola ha fatto da paradigma per quello che vediamo adesso. In un distretto con 375.00 persone un unico ospedale avere un approccio unitario e di collaborazione con le autorità locali è stato fondamentale per una risposta rapida ed efficiente. Cuamm aveva in loco solo cinque persone e sarebbe stato impensabile gestire una situazione del genere senza la collaborazione locale. Allo stesso modo è stato fondamentale il coinvolgimento delle comunità, andare nei singoli villaggi e rendere coscienti le persone che non ci fossero untori, far capire che non si trattava di magia o di punizione di una divinità, ma di una malattia da cui bisognava difendersi, imparando le norme igieniche di base là dove fosse possibile.  Tutto questo è possibile solo se esiste una fiducia di base.

 

  • Tutto questo riguarda anche noi: quando si parla di fiducia e di comunità, pensiamo ai medici di base e alla riduzione dell’investimento che è stato fatto in Italia sulla sanità del territorio, sull’assistenza domiciliare e sul servizio dei Medici di Medicina Generale..

l sistemi sanitari stanno in piedi non solo con la specializzazione dell’ospedale, che è certamente fondamentale, ma con il coinvolgimento del territorio, bisogna fare squadra anche in Italia. L’obiettivo del Cuamm è rinforzare i sistemi sanitari dei paesi più poveri in tre livelli: ospedale, centro sanitario, comunità/villaggio. Se ci si perde per strada uno di questi elementi è un disastro. Una sanità distribuita sul territorio potrebbe essere molto meno costosa e più efficiente. Solo se l’intera comunità è sana è possibile uno sviluppo economico e sociale.

 

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WPills #1 – L’epidemia da COVID-19 in Africa: i dati di queste prime settimane

A cura del WolissoProject – Gruppo Scientifico
Gaia Matilde, Laura e Chiara

Nella WHO African Region [1] i primi casi di COVID-19 confermati dall’OMS risalgono agli ultimi giorni di Febbraio 2020, mentre nel resto del mondo si contavano poco meno di 100’000 casi.
Già il 13 Febbraio l’OMS si era pronunciata a favore di misure di prevenzione in tredici Paesi, considerati ad alto rischio sulla base di contatti diretti e flussi di persone da e verso la Cina; tuttavia, secondo l’External Situation Report 1, pubblicato dall’ufficio dell’OMS per la regione Africa il 4 Marzo, i primi casi di COVID-19 sono stati importati non dalla Cina ma da Italia e Francia. Il primo caso confermato ad Algeri, per esempio, è stato fatto risalire ad un uomo di 61 anni proveniente da Milano.

I Situation Report vengono pubblicati dall’OMS con cadenza settimanale. I primi Paesi colpiti sono stati Algeria, Nigeria e Senegal.

Il secondo Situation Report viene pubblicato l’11 Marzo, giorno in cui l’OMS dichiara il COVID-19 pandemia globale, con 114 paesi coinvolti. Nella WHO African Region si contano 47 casi in nove Paesi, nel resto del continente altri 66, divisi tra Egitto, Tunisia e Marocco. Il 60% dei casi confermati nella regione sono importati: la maggior parte dei pazienti aveva viaggiato recentemente in Italia (12,43%) e in Francia (7,25%); altri paesi legati all’importazione di casi sono Spagna, Germania, Portogallo, Austria e Regno Unito.
I restanti casi hanno contratto il virus localmente: il 90% si trova in Algeria e negli altri due Paesi che riportano casi locali (Camerun e Nigeria), l’infezione si può far risalire ai contatti con casi importati.

Il terzo, risalente al 18 Marzo, evidenzia una notevole espansione geografica del contagio, con 18 nuovi Paesi della Regione interessati dall’epidemia, per un totale di 345 casi confermati. È inoltre il primo Report in cui si registrano decessi, tutti e sette riguardanti pazienti over50 con comorbidità.

Sono 12 i Paesi che riportano casi di trasmissione locale, di alcuni riconducibili a cluster d’infezione (tutti e 18 i casi del Senegal e 17 dei 34 casi locali dell’Algeria).
Nel resto del territorio africano, non facente parte della Regione, si registrano 277 ulteriori casi in sei Paesi.

Già la settimana successiva viene superata la soglia dei 1000 casi. Al 25 Marzo 38 Paesi sono interessati dal contagio, numero che sale a 42 con il quinto Situation Report del 1 Aprile. In questa data si registrano 3766 casi e 95 decessi, con i sei Paesi più colpiti (Sud Africa, Algeria, Burkina Faso, Senegal, Costa d’Avorio e Ghana) che contano il 72% dei casi riportati nella Regione.

L’8 Aprile, mentre a livello globale si supera la soglia del milione di casi (1’279’722), nella WHO African Region il numero di casi quasi raddoppia rispetto alla settimana precedente, mentre quello dei decessi triplica. Altri tre Paesi si aggiungono a quelli coinvolti dall’infezione: Malawi, Sao Tomè e Principe, e Sud Sudan.

Il Case Fatality Ratio (CFR) della Regione africana si porta a 4,6%, con picchi molto alti in alcune zone come Burkina Faso (7%) e Algeria (13%).

L’ultimo aggiornamento sulla situazione COVID-19 in Africa è stato pubblicato il 15 Aprile, con il Situation Report 7: è stata superata la soglia dei 10’000 casi (10’759), con 520 decessi. I Paesi coinvolti rimangono 45, con Comoros e Lesotho gli unici due della Regione senza casi riportati.
Nella settimana precedente è stato osservato un trend di discesa in Algeria e Camerun, mentre rimane in salita in Costa d’Avorio, Ghana, Niger e Sud Africa.
In Algeria, nonostante il trend in miglioramento, rimane molto preoccupante il CFR, che sale al 15,7%; tra gli altri Paesi con almeno 100 casi confermati il CFR
risulta critico anche in Congo (8,3%) e Mali (8,1%).
Risultano maggiormente colpiti gli individui di sesso maschile e l’età mediana rimane costante sui 41 anni.

Al 15 Aprile 2020, i casi totali dell’African Region sono 10’759 con 520 morti.
Attualmente, i paesi che hanno registrato più casi sono Sud Africa (2’415), Algeria (2070), Cameroon (855), Costa d’Avorio (638) e Ghana (636).
In Etiopia e Tanzania, i Paesi dove ci sono gli ospedali di Medici con l’Africa CUAMM con i quali il WolissoProject collabora, i casi totali registrati sono rispettivamente 82 e 53.

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Le misure IHR (International Health Regulation) [2] adottate fino ad ora sono le seguenti:

  • Tutti i Paesi della WHO African Region conducono screening ai punti d’entrata (PoEs).
  • 35 Paesi hanno adottato il divieto d’entrata nei propri territori; di questi, 22 consentono l’atterraggio di aerei cargo, umanitari o d’emergenza.
  • 9 Paesi hanno adottato il divieto d’entrata nei propri territori a passeggeri provenienti da paesi ad alto rischio; 3 Paesi consentono l’ingresso con l’obbligo di 14 giorni di quarantena all’arrivo.
  • 11 Paesi hanno adottato misure di lockdown nelle zone affette.
  • 12 Paesi sono in lockdown nazionale.
  • 8 Paesi hanno imposto il coprifuoco.

Secondo l’analisi dell’OMS le misure attualmente in vigore devono essere ulteriormente rinforzate per contenere la rapida diffusione del contagio:
nonostante il tasso di incidenza settimanale sembri in diminuzione, la situazione continua ad essere critica ed è fondamentale che le autorità locali continuino a implementare misure conclamate come ricerca attiva dei casi, somministrazione di tamponi, isolamento dei casi confermati, tracking dei contatti, distanziamento sociale e promozione di pratiche di igiene personale.

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[1] La WHO African Region comprende tutti gli Stati del continente eccetto Egitto, Eritrea, Gibuti, Libia, Marocco, Somalia, Sudan e Tunisia.
[2] IHR (International Health Regulation) rappresenta un accordo firmato nel 2005 tra 196 Stati membri della WHO con l’obiettivo di garantire la massima sicurezza contro la diffusione internazionale delle malattie con la minima interferenza possibile sul commercio e sui movimenti internazionali, attraverso il rafforzamento della sorveglianza delle malattie infettive mirante ad identificare, ridurre o eliminare le loro fonti di infezione o fonti di contaminazione, il miglioramento dell’igiene aeroportuale e la prevenzione della disseminazione di vettori.

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